venerdì 9 ottobre 2015

Alex Fedele - FILE 005 - Game Over

Prima di agire decisi di far concludere l’interrogatorio della signora Fratti. Dopotutto nella polizia vige una certa etica/burocrazia, a seconda della circostanza. Terminato il colloquio con la donna, Ducato si alzò in piedi e rivolgendosi a Flavio disse:
«Ok Flavio, noi andiamo in questura. Se vuoi seguirci …»
«Prendo la macchina e ci vediamo lì. Alex, andiamo».
«Perché andare in questura? Non è necessario, ispettore. Almeno, non per adesso».
«Ti sei bevuto il cervello?!» esclamò Flavio con rabbia. «La polizia deve far luce sul caso e andare in questura è uno step necessario per …».
«Ma io ho risolto il caso. Questo non vi interessa?».
La stanza puntò gli occhi verso di me e si riempì di un brusio generale
«Stai scherzando?!» mi domandò Ducato.
«Per niente, ispettore. Ho risolto il caso, ho scoperto chi è l’assassino del signor Fratti e so anche come incastrare il colpevole».
«Ma non dire sciocchezze, ragazzo! Non abbiamo prove a sufficienza per inchiodare qualcuno!».
«Insisto. So di potercela fare» dissi guardandolo intensamente.
Ducato parve quasi rassegnato e con un gesto della mano mi diede via libera.
«Ispettore!» esclamò rabbiosamente Flavio. «Non vorrà mica … non avrà intenzione di mandare un dilettante allo sbaraglio, non è vero?!».
Dal canto suo Ducato pareva molto tranquillo. «Io coordino solamente il lavoro» si limitò a rispondere. «Il responsabile di quel ragazzo e delle sue azioni sei tu».
Flavio mi si avvicinò furtivamente. «Se sbagli e mi fai fare brutta figura ti rispedisco a casa con un calcio nel sedere!».
Diretto ed elegante, questo è Flavio.
Mi accomodai sul divanetto dell’ufficio e, accavallando le gambe, cominciai a parlare.
«Se non vi dispiace, passo alla spiegazione».
«Prego» disse Ducato poco convinto. Lanciò un’occhiata perplessa a Flavio, che gliene restituì una identica. Poi l’ispettore gli chiese: «Perché ha assunto quella posa plastica?».
«Lei lo sa?» ribatté Flavio.
«L’assassino ha costruito un piano ben congeniato ed è riuscito ad ingannarci fin dal primo momento. L’astuzia di questa persona è stata degna di un assassino di un libro giallo e devo dire che sono sorpreso che una mente umana sia potuta arrivare a tanto. Innanzitutto, come dedotto precedentemente, il delitto è stato commesso da uno di questi tre sospetti, che a turno sono stati interrogati. Tutti e tre avevano un movente valido per uccidere la povera vittima e non provate a negarlo, signori. Tutti potevate commettere questo efferato delitto».
«Ispettore» sussurrò il signor Norgi, l’assistente di studio della vittima.
«Cosa c’è’?».
«Ma fate risolvere un caso di omicidio ad un ragazzino?».
Ducato rispose con un risolino isterico e poi mi guardò storto, fulminandomi con lo sguardo.
«Allora? Chi è il colpevole? Sono impaziente!» esclamò Flavio.
«Già! Chi ha ucciso l’avvocato?» domandò impaziente Veronica.
Feci passare qualche secondo, poi continuai.
«Signora Fratti, vuole confessare? Non si scomodi a negare, sappiamo tutto».
Il silenzio avvolse completamente la stanza e tutti adesso guardavano la moglie della vittima con sguardo sconcertato.

D’ un tratto le lacrime della vedova divennero risate incontrollate e il mascara sciolto contribuì a farla assomigliare ad un patetico clown.
«Oh, davvero? E così avrei ucciso mio marito? Perché non provi a dimostrarlo, ragazzino?» mi chiese cominciando a camminarmi intorno.
«Spero tu possa spiegarci» incitò Ducato guardandomi negli occhi. Flavio era rimasto ad osservare la scena in silenzio. Carezzava la testolina di Andrea e sembrava che quel gesto lo estraniasse dalle preoccupazioni. Mio fratello se n’era stato in silenzio per tutto il tempo, seduto in un angolo lontano dello studio in compagnia di un agente della scientifica che aveva provveduto a farlo rilassare.
«L’ora del delitto stabilito dalle analisi della scientifica è approssimativa. Diciamo che la morte risale alle sette e quindici e …».
«Ecco che hai commesso un erroraccio da dilettante! Non può essere! L’hai detto tu stesso che le analisi della scientifica sono approssimative! Il signor Fratti deve essere arrivato in ufficio intorno alle sette e venticinque. E il delitto è stato commesso qui signori, ricordiamoci di questo piccolo ma importante particolare!» tuonò Flavio verso la folla.
«Ed è qui che vi sbagliate» affermai convinto.
«Cosa?!» esclamò rabbioso Ducato.
Mi alzai in piedi. «La scientifica ha detto che i fatti sono avvenuti tra le sette e quindici e le otto, ma non ha calcolato l’ora in cui è l’avvocato è morto, anche perché francamente è impossibile da stabilire con precisione».
«Illuminami. Il palco è tuo» disse Flavio.
«Be’, credo che il delitto sia avvenuto molto tempo prima l’ora stabilita dalle prime analisi».
«Cioè quando?».
«Quaranta, quarantacinque minuti prima».
«Ora basta, stai veramente delirando! La scientifica» proseguì Ducato «ha effettuato analisi precise, basate su deduzioni che … ».
«Mi dica, in che stato era il cadavere quando siete arrivati qui?».
Ducato rivolse la stessa domanda ad un agente della squadra scientifica, che rispose:
«Il corpo stava cominciando ad irrigidirsi, e …» l’ispettore lo fermò con un cenno della mano deciso.
«Questo significa solo una cosa …» osservò incredulo.
«Subito dopo la morte,» e cominciai a giocherellare con un portapenne rappresentante una piccola volpe «i muscoli sono flaccidi e iniziano ad irrigidirsi solo dopo un periodo compreso tra l’una e le tre ore dopo il decesso. Se la scientifica ha asserito che al momento dell’arrivo della polizia il corpo stava per iniziare il processo di irrigidimento, è probabile che il delitto si sia verificato almeno un’ora prima».
Ducato si voltò verso il responsabile della squadra, che dal canto suo annuì.
«Vede ispettore, nel referto che ho sbirciato prima …».
«Hai sbirciato il referto?!».
«Ehm … dicevo, c’era scritto che l’irrigidimento … »
«Non devi sbirciare i referti!»
« …comprendeva la mascella e i gomiti».
«Già. Ma questo dovrebbe far sballare anche la tua deduzione!». Ducato allargò le braccia. «La prima parte del corpo ad irrigidirsi è proprio la mascella e il gomito non lo segue di certo a ruota. Sono necessari alcuni minuti prima che …».
«Ma mi dica, cosa succede se fa caldo?».
Rimase basito.
 «Uff, è naturale, no? Il processo di irrigidimento si accentua e di conseguenza si velocizza».
Annuii convinto.
«Ma siamo agli inizi di Settembre! Non fa così caldo!».
«Ma il corpo potrebbe essere trasportato, non crede?».
«Vuoi dire che …».
«Non è un ipotesi così impossibile e guardando il referto si capisce il perché. L’errore è credere che il delitto sia avvenuto in ufficio e credere che il signor Fratti sia stato ucciso qui».
Flavio intervenne: «Stai dicendo che la vittima è stata ammazzata lontano da qui?!».
«Certo. Il decesso non è avvenuto in ufficio, bensì nell’abitazione dei Fratti! La signora, dopo aver fatto colazione con suo marito, ha approfittato di un evidente momento di distrazione della povera vittima, ha indossato dei guanti ed ha cercato di strangolare suo marito. Ma non ha calcolato bene i tempi ed ha effettuato la presa mentre suo marito si stava voltando. La signora, però, ha approfittato della corporatura esile e minuta della vittima ed ha stretto ancora di più la morsa provocandone il decesso per strangolamento. Il signor Fratti ha cercato di difendersi e con le ultime forze è riuscito a imprimere le mani sul collo del suo assassino».
«C’è una prova così concreta?! Ne sei sicuro?» Ducato era un fascio di nervi, non sapeva più da che parte voltarsi e cominciava a sudare in maniera imbarazzante.
«Uno degli agenti della scientifica ha ritrovato degli esigui frammenti di pelle umana sotto il dito medio sinistro della vittima. Voleva comunicarglielo, ma lei stava ancora interrogando i sospetti. In più l’unghia dell’avvocato è scheggiata, questo perché ha cercato ovviamente di difendersi come poteva».
«Corrisponde, ispettore» disse l’agente della scientifica interpellato.
«Tutto ciò è incredibile» si lasciò sfuggire Flavio.
«E non è tutto. Come le dicevo, dopo che il signor Fratti è morto, sua moglie lo ha trasportato qui, approfittando sempre del fatto che avesse una corporatura abbastanza esile. Probabilmente avrà messo suo marito in una busta dell’immondizia, o qualcosa del genere, e immagino abbia chiesto a qualcuno dei vicini di aiutare a sollevarla e a metterla in auto, spacciando il tutto per chissà quale bugia. Ecco spiegata la questione del calore corporeo della quale discutevamo poco fa. Quando la signora è arrivata in ufficio, la vittima era già morta da un pezzo ed erano circa le sette e venticinque. Lei, signora Fratti,» e mi rivolsi alla donna «conosceva benissimo le abitudini di suo marito. Sapeva che entrava sempre dalla porta sul retro, sapeva che la mattina non voleva essere disturbato per almeno un po’ di tempo, ed ha sfruttato tutto questo a suo vantaggio. Un piano veramente ben congegnato». Mi scostai dalla scrivania e raggiunsi la finestra dell’ufficio. Scansai le tende cerulee e continuai: «Ha posizionato il cadavere a terra, rovesciato qualche soprammobile per far credere ad una colluttazione e lanciato l’allarme».
La vedova era in preda ad una crisi di nervi. Lo sguardo spento e vitreo non faceva che risaltare la sua colpevolezza. Mi lanciò talmente tanti insulti che per un attimo pensai che parlasse un’altra lingua. Le inflessioni dialettali suonavano come pugni in mezzo agli occhi e la situazione cominciava ad essere abbastanza pesante, tanto da assumere i contorni di una vera e propria scenata.
«Non hai prove contro di me, idiota! Sei solo un insulso detective da quattro soldi! E lei … » disse rivolgendosi a Ducato «lei fa mettere il becco di un ragazzino in queste circostanze? Dovrebbe vergognarsi!»
Ducato mi guardò severamente.
«Lei si sbaglia signora» sussurrai. «Io le ho eccome le prove della sua colpevolezza. Purtroppo per lei, sono più di un semplice terzo incomodo. Non posso stare zitto di fronte alla sua crudeltà» conclusi indignato.

«Hai le prove? Sono curiosa!» ostentò con visibile aria di sfida.
«Come ho detto prima, sotto le unghie della vittima ci sono frammenti di pelle. Pur essendo piccoli verranno certamente esaminati e ovviamente conosceremo il DNA del nostro assassino. Sono certo che coinciderà col suo. Come se non bastasse, annusando le unghie della vittima si può notare come siano impregnate di un profumo tipicamente femminile».
«Forse» continuò la signora «hai dimenticato che c’è anche la segretaria, che potrebbe aver usato il mio stesso profumo».
«No, signora. Non l’ho dimenticato, affatto. Nonostante tutto lei ha le prove della sua colpevolezza addosso. Non ci è ancora arrivata?» le chiesi mentre la fronte le si era imperlata dal sudore.
Poi indietreggiò di un passo e capì che non poteva più negare.
«Ci dica, perché non scosta quell’elegantissima sciarpa bianca che porta al collo?».
Rimase paralizzata e per un attimo vidi la bocca muoversi senza dire nulla.
«Signora, esegua per favore» intervenne Novento.
«Non può farlo, vero? Ci sono i segni che suo marito le ha lasciato sul collo nel disperato tentativo di salvarsi. Sono piccoli, ma si notano facilmente».
Ora guardava in basso e tremava come una foglia.
«Inoltre,» continuai mentre stava cercando di ribattere «sulla porta dalla quale suo marito entrava in ufficio tutte le mattine, ci sono dei segni di scorticamento, proprio all’altezza dei piedi».
«E allora?!» urlò.
«Osservi bene le scarpe dei sospetti, ispettore. La signora Veronica indossa comuni scarpe da tennis, mentre Oreste ha dei mocassini. L’unica ad avere scarpe con il tacco,anzi in questo caso con la punta adunca, è la signora Fratti. Quei segni può averli fatti solo lei nel tentativo maldestro di posizionare suo marito a terra». Mi appoggiai ad un tavolino in legno. «Di certo, arrivata in ufficio con un cadavere, non poteva chiedere più alcun aiuto».
«Però» osservò Flavio «la porta potrebbe essersi rovinata molto prima».
«Se fosse come dici, non credi che sul graffio ci debbano essere tracce di sporco? Ricordiamoci che il legno è stato tolto dalla facciata della porta che volgeva verso l’esterno. In questi giorni ha piovuto a Torino. Lo so perché prima di trasferirmi mi sono informato sul clima della città. Dunque, se i segni sul legno fossero vecchi, dovrebbero esserci almeno segni di sporco, di umidità, non crede? Invece nulla, pulitissimo. Ne deduco che il taglio è stato fatto da poco, da molto poco, se consideriamo che al tatto è ancora fresco».
Un agente della scientifica controllò sotto i capelli della signora. Sulla parte posteriore del collo c’erano i segni verticaliche suo marito le aveva provocato per tentare di salvarsi disperatamente la vita.
La vedova si gettò in ginocchio tra lo stupore generale e le lacrime cominciarono a rigarle il viso.
«Lo ammetto,» disse con la testa tra le mani «l’ho ucciso io, ma l’ho fatto per una buona ragione».
«Signora,» cominciò Flavio con tono indignato «noi non abbiamo il potere di togliere la vita ad un essere umano, qualunque ragione ci spinga a farlo. Non è altro che lo specchio del nostro stesso egoismo» concluse gettando la sigaretta.
«Stia zitto! Lei non sa nulla della mia famiglia! Mio marito non aveva mai voluto avere figli da me, ma il mese scorso un detective che avevo assunto per pedinarlo, mi aveva confessato che aveva una relazione extraconiugale con una donna molto più giovane. E quel bastardo l’ha addirittura messa incinta!».
Tutti noi ci guardammo stupiti. Era incredibile dove potevano arrivare la follia e la crudeltà umana: quella donna aveva ucciso suo marito, con il quale aveva condiviso anni e anni di vita, per l’infedeltà di quest’ultimo. Ucciso per non aver trasformato l’amore in qualcosa di concreto.
L’ispettore Ducato indusse Novento ad arrestare la donna. Gli agenti della scientifica raccolsero le loro cose e ci salutarono con un veloce cenno del capo.

«Dov’è il bagno?» aveva chiesto Alex pochi minuti prima. Ora il ragazzo non era più nella stanza e  Ducato e Flavio erano liberi di poter parlare tra loro.
«Sorprendente!» esclamò l’ispettore con gli occhi che brillavano.
«Già» rispose l’uomo accendendosi un’altra sigaretta. «Per essere un ragazzino, non è niente male».
«Flavio, ci vediamo presto. Ora che sei di nuovo nel giro dopo cinque anni, lavoreremo insieme più spesso».
«Ci conto, ispettore. Ci conto davvero».

Uscii dal bagno e mi sedetti paziente nella sala d’attesa dello studio legale. Notai una rivista di moda e iniziai a navigare tra quelle pagine che pullulavano di belle ragazze con le ossa in bella vista e un’espressione del viso snob. Poi la mia attenzione cadde su un vecchio quotidiano stropicciato. Era vecchio di anni e il trafiletto sul lato sinistro era di mio padre.
Papà e mamma si erano innamorati quando erano giovanissimi ed entrambi condividevano la stessa passione per la scrittura. Amavano saper raccontare e saper trasmettere emozioni alla gente con le proprie parole. La differenza era il tipo di storie che preferivano raccontare. Mentre mio padre era alle prese con dossier di assassini, foto di incendi e articoli sulla mafia locale, mia madre era la regina delle indiscrezioni scabrose e degli scoop sui personaggi pubblici.
Mamma mi disse che papà morì in un incidente stradale. A ripensarci, credo sia stata quello lo spartiacque della mia famiglia.
«Fratellone, andiamo? Ho fame, devo ancora fare colazione!» disse Andrea scuotendomi il braccio e riportandomi alla realtà.
«E tu? Che fine avevi fatto?».
«Tu in macchina mi avevi detto di stare buono e io sono stato buono. Lo sai che sei stato proprio forte?!».
Lo baciai sulla fronte e gli strinsi la manina.

Usciti dall’ufficio ci dirigemmo verso il bar più vicino.
Presi un caffè macchiato, mentre Flavio si concesse un ulteriore caffè corretto. Il piccolo chiese espressamente «cornetto e cappuccino».
«Niente male» mi disse Flavio mentre mi accingevo a pagare.
«Ti riferisci al caso?».
«No, ai tuoi pantaloni  … certo che mi riferisco al caso!».
«Ok, non c’è bisogno di arrabbiarsi tanto …».
«Non montarti la testa, però. Ho conosciuto agenti di polizia che avevano capacità deduttive straordinarie e si sono persi per la strada, mi raccomando, non fare lo sbruffone, non sentirti mai arrivato, mai sazio. Devi continuamente avere fame, devi essere affamato, devi …».
«Sono affamato» guardai il mio fagottino.
Flavio tirò un enorme respiro e prese a guardarmi di traverso.
«Scherzavo. Ho capito» lo rassicurai.
Mi guardò ancora sospettoso.
«Prometto di non montarmi la testa. O vuoi anche il ditino» e gli mostrai il mignolo «per consolidare il patto?»
«E usa meno sarcasmo, già che ci sei» mi avvisò sporcandosi il pizzetto di crema al limone.
Colarte mi aveva messo sulla strada, alla macchina avrei pensato io. Giusto così, il carburante si sarebbe chiamato responsabilità.



Notte fonda, ore due e trenta.

Il vento sbatteva insistentemente sulle finestre provocando rumori da brivido e il continuo oscillare degli alberi garantiva un’atmosfera tetra e al tempo stesso temibile. In un salone davvero troppo sfarzoso per essere legale, due uomini parlavano e si confidavano segreti. Che essi fossero professionali o personali non aveva importanza. Il primo era un vecchio, aveva almeno novant’anni e tossiva in continuazione, ma era piuttosto arzillo. Le tempie imbiancate, le vene pulsanti e la voce roca suggerivano un’esistenza passata nel precario, sul filo del rasoio, in una condizione di vita molto altalenante. Gli occhi azzurri avevano ormai perso lo smalto di un tempo e per quanto in passato fosse stato un uomo forte e deciso, con il veloce sopraggiungere dell’età e della malattia che lo affliggeva era diventato debole come una foglia d’autunno e sembrava vulnerabile tanto quanto un bambino.
Il secondo tizio era suo figlio, con precisione il primogenito. Aveva dei capelli biondi scuri raccolti in un codino e un fisico invidiabile, da paura. I lineamenti duri e spigolosi completavano il quadro di una persona dotata di enorme freddezza e di uno sguardo capace di far impallidire il più coraggioso dei soldati. Non aveva sicuramente più di trentacinque anni, ma sembrava appartenere a questo mondo da molto, molto più tempo. Entrambi gli uomini fumavano, anche se il vecchio avrebbe dovuto smettere anni prima.
«Hai … hai telefonato a quella donna?» chiese l’uomo più vecchio.
«Certo, papà. Non avrei dovuto?» rispose l’uomo più giovane.
«No, hai fatto bene … quel porco avrà quello che si merita».
«Tutto questo per quello che accadde cinque anni fa, non è vero?».
«E per cosa altrimenti? Tua madre ha esalato l’ultimo respiro a causa di quel figlio di puttana!».
«Sì, lo so» asserì il biondo. Poi gettò la sua sigaretta in un elegante posacenere di cristallo e si distese comodamente sul divano slacciandosi la cravatta con una certa destrezza.
«La segnalazione di quel detenuto è stata davvero utile. Quand’è programmata la sua evasione?» domandò ancora il vecchio.
«Domani notte a quest’ora. Uno dei nostri si travestirà da sentinella e stordirà i poliziotti di guardia. Esattamente come previsto, papà».
«Pagherà caro, pagherà con la vita, quel bastardo. Non avrebbe dovuto mettersi contro di noi» sentenziò il vecchio, che intanto si era alzato dal suo posto ed era preso dal sistemarsi la giacca beige che portava quasi sempre.
«Che intenzioni hai, adesso?».
«Voglio andare nel mio studio e ritoccare bene il piano. Non gli permetterò mai più di accostarsi qui. Ci vorrà un po’ di tempo, ma sono certo che ce lo toglieremo dalle palle per sempre».
«Sarà meglio che ti riposi un po’, non credi? Potresti …».
Il vecchio sbottò e diede un pugno sul prezioso tavolino in legno pregiato. Un candelabro dorato si rovesciò a terra con violenza e la cera delle candele macchiò il parquet.
«Lo so io cosa devo fare e cosa il mio fisico può ancora fare. E adesso andrò nel mio studio a meditare su come posso uccidere quel porco, siamo intesi?».
«Intesi …» rispose suo figlio con calma. Non lo emozionava nulla e nemmeno un proiettile avrebbe scalfito la sua sicurezza.
Nonostante fosse suo padre avrebbe voluto prenderlo a pugni. Lo si notava solo guardandolo, con quell’espressione cattiva sul volto e gli occhi chiari che scintillavano sotto l’influenza dell’odio. Lo rispettava, certo, ma il suo carattere non faceva sconti.
«Chiunque ti si metta contro non merita di vivere» era quello che gli avevano insegnato. E questo valeva per tutti, parenti compresi.
«Ah, Diego …» lo chiamò suo padre mentre usciva dal salone. «Chiama tuo fratello e vedi cosa sta combinando, chiaro? Poi domattina parliamo. Intesi? Tanto di argomenti ce ne sono».
Diego annuì con tranquillità, poi, una volta che suo padre fu uscito dalla stanza, incrociò le gambe e i pensieri lo sovrastarono.
«Cinque anni … sono già passati cinque anni. Papà riuscirà a vendicarti, mamma. E ci riuscirò anch’io, te lo prometto» sul viso del ragazzo si dipinse un ghigno inquietante. «Ormai so tutto ciò che devo sapere».
Prese una foto spiegazzata dalla vetrinetta accanto al divano. Ritraeva suo padre da giovane, ma Diego la guardò sadicamente. Pochi attimi dopo le diede fuoco col suo accendino. 
«Quel detective …» riprese a pensare. «La cosa che non capisco è la sua idea di mettersi di nuovo contro di noi».
Si alzò e raggiunse l’enorme vetrata della casa. Osservò la luna e le stelle e aprì la porta finestra gettando le ceneri della foto nell’enorme giardino che aveva di fronte. «Come vuoi, amico. Morirai al più presto».


domenica 4 ottobre 2015

Alex Fedele - FILE 004 - Inizia l'avventura

La mattina dopo, quando percorsi la rampa di scale per arrivare in salotto prima e in cucina poi, Bianca era già di fretta e ci salutò con un cenno veloce scomparendo dietro la porta di mogano.
«Dove va così di fretta?» domandai a Flavio.
«Una sua amica le ha chiesto di aiutarla con un progetto o qualcosa del genere …» rispose con tutta la diffidenza di questo mondo.
Poi, bevuto un sorso di caffè, continuò. «Andrea non deve andare a scuola?»
«No, per ora no. Di comune accordo con la mia famiglia abbiamo deciso di fargli passare la prima settimana a riposo. Così, per farlo ambientare meglio. Per un bambino è più difficile».
«Questo lo dici tu. I bambini si adattano al nuovo ambiente automaticamente».
Facemmo colazione in un silenzio abbastanza fastidioso, interrotto solo dall’inevitabile fruscio delle pagine del quotidiano che Flavio stava leggendo. Aggredendo un biscotto, pensai che io e quell’uomo non potevamo essere più diversi. Poi un suono, un repentino trillo di un telefono e poi altri tre, prima che il padrone di casa si alzasse e andasse a controllare il fisso.
«Pronto?» disse sollevando la cornetta. Poi si zittì e con lo sguardo arrabbiato riagganciò, venendo ben presto a sedersi di nuovo a tavola.
«Scherzi da quattro soldi …». Ci accorgemmo presto, però, che il trillo continuava.
«Guarda che forse è quello dell’ufficio …» osservai.
Si alzò di scatto buttando il giornale a terra. Quasi rovesciò la tazzina di caffè e litigò animosamente con il mazzo di chiavi, reo di non voler aprire la porta del suo ufficio, peraltro ermeticamente sigillata da lui stesso la sera prima.
«Agenzia investigativa di Flavio Moggelli. La ascolto, dica pure».

Rimase al telefono per circa cinque minuti buoni. La maggior parte del tempo, immagino, la passò ad annuire e ad ascoltare, dato il suo silenzio. Poi di colpo entrò in cucina e fissandomi disse:
«Tu non volevi fare il detective?».
Con un biscotto ancora tra i denti bofonchiai: «Sì, perché …?».
«E’ ora di andare. Inizia l’avventura, ragazzino!».
«Ma … proprio adesso?».
«Cosa credi?! Che i criminali aspettino che tu abbia finito la colazione per commettere le loro cazzate? Muoviti e vieni con me!».
«E Andrea?!».
«Portalo con noi, non c’è altra scelta! Ripeto: Sbrigati!».
Andai di corsa al piano superiore, svegliai mio fratello in modo abbastanza brusco, mentre lui mi chiedeva a più riprese cosa stesse succedendo. Naturalmente non potei rispondergli in modo dettagliato, ma credo comunque che capì che era stato svegliato per un motivo abbastanza importante.
Immaginate che un bambino come Andrea possa impressionarsi sulla scena di un crimine? Allora non conoscete per niente mio fratello. A cinque anni vantava la visione dei migliori capolavori dell’horror. Era appassionato di tutte le serie televisive che parlavano di crimini, omicidi o comunque in cui si facesse largo uso di sangue, esplosioni e violenze.
Inoltre aveva sempre desiderato lavorare, proprio come me, in questo mondo. Per lui era bello respirare l’aria elettrica che si veniva a creare in un caso. Voleva stare lì, vedere come facevano detective e poliziotti a risolvere i casi più difficili. Praticamente un ficcanaso in edizione tascabile.

Prendemmo la macchina di Flavio, che sfrecciò in quella fresca mattina autunnale come un pilota di Formula Uno. Ci dirigemmo verso il centro e per me, che non avevo mai visitato una grande città come Torino, fu una sorpresa ritrovarmi affascinato dal continuo brulicare di persone che incessantemente popolavano le poco respirabili strade di quella metropoli.
«Di cosa dobbiamo occuparci?» domandai curioso.
«Di cosa devo occuparmi, semmai» precisò indisponente. «Non cominciare a portare fretta, il fatto che tu abbia risolto qualche caso nella tua città non fa di te un detective. Osserva e impara come da accordi».
«Quindi non devo …»
«Bravo. Non devi toccare, fare nulla. Pensa solo a badare al tuo fratellino e tieni gli occhi aperti. Ti chiamerò io se avrò bisogno di verificare le tue opinioni in proposito, d’accordo?».
Rimasi zitto e annuii leggermente.
«Comunque,» riprese a parlare «La chiamata è di un noto studio legale della città. Pare abbiano trovato il cadavere di un avvocato».
«Ricevuto».


 Arrivati di fronte ad una palazzina color grigio chiaro, decidemmo di entrare. Salimmo una rampa di scale che ci avrebbe indirizzati dalla hall fino al piano superiore, dove probabilmente erano situati gli uffici degli avvocati Doveva essere uno studio legale molto rinomato e me ne accorsi dall’arredamento, elegante quanto costoso e dall’aria cinematografica. Un enorme lampadario grande quanto una Porsche era sospeso nel corridoio della hall e per un momento temetti di essere finito in una puntata di Law and Order.
Appena finite le scale ci ritrovammo in una piccolissima saletta d’attesa dove c’erano già tre persone che, per la cronaca, non appena ci videro strabuzzarono gli occhi.
Uno di loro, un uomo sulla quarantina, era pallido, con i capelli castano chiaro e con degli occhialini da dottore. Ci venne incontro come se noi fossimo Superman e Batman e lui il bambino che deve essere salvato da Joker o da qualsiasi altro cattivo dei fumetti vi venga in mente.
«Oh, lei deve essere il signor Moggelli! Che gioia vederla!»  disse stringendogli animatamente la mano. Poi proseguì. «C’è anche la polizia ed è proprio la squadra capitanata dall’ispettore che mi ha chiesto di rivolgermi a lei. So che avete lavorato a stretto contatto per molti anni».
«Già, si tratta della prima squadra dei reati di prima classe contro la persona. Ci porti sulla scena del crimine, la prego».
In macchina, tra le poche parole, Flavio mi aveva spiegato che i crimini più importanti commessi a Torino erano di competenza del commissario plenario(o più semplicemente plenario …), un istituto di giustizia istituito in città a metà degli anni ottanta del quale aveva fatto parte anche lui per molti anni. I reati di prima classe contro la persona comprendevano omicidi, stalking, furti, molestie e cose di questo genere. La squadra era capitanata dall’ispettore capo Vincenzo Ducato, un uomo che mi era stato descritto come di caratura piuttosto elevata. La squadra era poi composta da altri ispettori, sottoposti a Ducato, e da agenti dotati di particolari abilità, oltre che da un’ulteriore squadra di agenti scientifici esterna.

«E lei è …» fece Flavio.
«Oh, certo che sciocco!» disse l’uomo di fronte a noi. «Mi chiamo Oreste Norgi e sono l’assistente della vittima. Lei è Veronica Buondini, segretaria personale dell’ufficio» disse indicando una donna abbastanza giovane con lunghi capelli neri.
Vidi un’altra donna in fondo alla stanza che piangeva senza freni, così intervenni.
«Scusi, chi è quella donna in fondo alla stanza che piange?».
«È la signora Fratti, la moglie della vittima. Come potete vedere è distrutta».
«Comprensibile …» sussurrò Flavio.
La donna in questione doveva avere all’incirca sessant’anni, ma grazie ad un trucco pesante e ad un abbigliamento giovanile ne dimostrava massimo cinquanta. Aveva capelli biondo platino, corti e cotonati, un fisico asciutto e dei lineamenti marcati accentuati dalle espressioni di dolore che sembravano dilaniarne l’anima.
«Dov’è la vittima?» domandò Flavio al signor Norgi.
«Nel suo studio» rispose la segretaria.
Flavio mi fece cenno di seguirlo e così entrammo nel piccolo – ma elegantissimo studio – che era proprio di fronte a noi. All’interno di esso c’era già una parte della squadra capitanata da Ducato.

Il primo a guardarci fu proprio Vincenzo Ducato. Lo intuii dall’espressione importante, dallo sguardo tarato dell’uomo che ne ha viste di tutti i colori e anche dalla descrizione fisica che mi aveva fatto in macchina Flavio. L’ispettore doveva avere circa cinquant’anni e, ad un fisico da far invidia, abbinava un look del tutto giovanile composto da capelli corti neri striati di grigio e da una barba, lunga ma curata, che gli avvolgeva il mento e al contempo gli permetteva di incutere un certo timore reverenziale. Lo stesso non si poteva dire per la sua statura, visto che a stento arrivava al metro e sessanta. Vestiva di un lungo cappotto nero scamosciato e sotto di esso aveva abbinato, sapientemente, una cravatta dello stesso colore ed una camicia bianca, linda come la coscienza dei bambini. Al suo fianco vi erano due agenti, uno in giacca e cravatta, dall’aria molto giovane e un altro con una tuta della scientifica.
«Ispettore!» disse chiamandolo ad alta voce Flavio. Sembrava nostalgico dei vecchi tempi e la sua voce assunse un’accezione sentimentale.
«Flavio Moggelli … quanto tempo è passato … allora, come va?» rispose l’ispettore con voce roca.
«Tutto bene. Lei invece? Ho sentito che in questi anni ha fatto faville».
«È rimasto tutto come avevi lasciato» e per un attimo ebbi l’impressione che quasi gli scappasse un sorriso. Si ritrasse immediatamente. «Ho saputo che stai per tornare in corsa e … » mi guardò sospettoso «È lui?» gli chiese.
«È lui» confermò Flavio.
«Sono io» dissi all’improvviso alzando una mano.
Ducato lanciò uno sguardo a Flavio. «Spiritoso?».
«Da spaccargli la faccia».
Sfoderai il mio miglior sorriso e tesi la mano verso Ducato, ma questi mi guardò e mi disse:
«Quanto tempo hai intenzione di rimanere con quella mano sospesa?».
Due strette di mano negate in meno di ventiquattr’ore. Un’altra e avrei stabilito sicuramente un record.
«Allora ispettore,» continuò Flavio «cos’è successo?».
«La vittima è un noto avvocato della città. Sua moglie era venuta qui alle otto passate, ora d’apertura dello studio, per portargli il pranzo che aveva dimenticato a casa. Aperto la porta sul retro, ha trovato il corpo del marito ed ha allarmato assistente e segretaria».
«Chiaro»
«Secondo la scientifica i fatti sono avvenuti verso le sette e quindici e le otto di questa mattina, ora del ritrovamento del corpo. Parliamo quindi di poco fa».
Guardai il mio orologio da polso per vedere che ora fosse: le nove meno venti. Intervenni incuriosito. «Possibile che in ufficio, nel giro di un’ora,  nessuno si sia accorto che la vittima era stata uccisa?» Flavio mi guardò storto.
«No» rispose a denti stretti l’Ispettore. «Il signor Fratti, avvocato di professione e dalla sfavillante carriera, aveva l’abitudine di arrivare a lavoro sempre un’ora prima per poter sbrigare l’enorme quantità di pratiche e poter tornare a casa prima la sera. Inoltre non consentiva a nessuno di entrare nel suo ufficio. I suoi assistenti aspettavano la sua chiamata per entrare ed iniziare il programma della giornata e pare che se qualcuno si azzardasse ad aprire la porta la vittima reagisse in modo molto violento».
«Tutto chiaro».
«Non ti avevo detto di stare zitto?» mi rimproverò Flavio. «Tieni il becco chiuso, ok?» e mi guardò con occhi di ghiaccio.
«No, no lascialo fare, forse potrà esserci d’aiuto» disse Ducato. «Deve comunque guadagnarsi il PSC … PSI …».
«PSD» lo corressi.
Mi lanciò un’occhiata priva di emozioni e inarcò un sopracciglio. «Sì, quello che è … ».

«Mi dica, ispettore» continuò Flavio. «I tre sospetti hanno un alibi?».
«Chi ti dice che sia stato uno di loro tre? Potrebbe essere stato ucciso da qualcuno entrato dalla porta posteriore che dà sull’ufficio».
«No» intervenni ancora. «Credo Flavio abbia ragione. La porta è chiusa dall’interno con un chiavistello e non vedo segni di forzatura».
«Ma l’assassino potrebbe aver avuto una chiave di riserva, non credi? Forse ha fatto entrare un amico e …» cercò di ribattere ancora Ducato.
«Non credo proprio. Se l’avvocato era davvero così minuzioso e scrupoloso come lei stesso lo ha descritto, dubito che abbia concesso a qualcuno di accompagnarlo a lavoro, visto che trascorreva del tempo in solitario per sbrigare pratiche in eccesso». Mi appoggiai alla scrivania. «Né credo che l’avvocato volesse correre il rischio di essere interrotto a lavoro da … un amico ogni giorno»
Vidi l’ispettore fare una smorfia poco convinto, poi andò da Flavio, si avvicinò e gli sussurrò:
«Ho visto che non lo sopporti …» disse a denti stretti cercando di escludermi dalla conversazione.
«Si vede così tanto?» rispose Flavio nello stesso modo.
«Sì … e adesso non lo sopporto più nemmeno io».
«Se la sbrighi lei. Mi pare sia stato lei a sostenere che dovesse interagire col caso, o sbaglio?».
«Non credevo che fosse così rompiballe» ultimò l’ispettore con un ghigno bonario.
                                                                                                         
«Novento» disse l’ispettore chiamando a sé un giovane agente. Era vestito in giacca e cravatta e non doveva avere più di venticinque anni. Possedeva una capigliatura piuttosto inusuale per un poliziotto, visto che teneva i capelli, visibilmente voluminosi, tirati completamente in su col gel.
«Dica ispettore».
«Vai a controllare se le tre persone in sala d’attesa hanno un alibi».
«Immediatamente, signore».
Mentre Ducato e Flavio facevano le più disparate ipotesi, cercai di scoprire di più e, mentre stavo esaminando la scena del delitto, tra le urla di Flavio che mi voleva da parte, notai che la porta secondaria dalla quale il signor Fratti era entrato era rovinata dall’esterno, sulla parte inferiore. Parte del legno, infatti, era stato scorticato, forse con un oggetto appuntito. Il graffio doveva essere abbastanza recente, visto che non vi erano tracce di acqua sporca che potevano essere state provocate da un probabile temporale.
L’agente incaricato di verificare gli alibi, portò con sé tutti e tre i sospetti.
Notai quanto la moglie della vittima fosse molto più alta sia della segretaria che dell’assistente d’ufficio. Questo era dovuto alle vertiginose scarpe a punta dotate, tra l’altro, di un tacco di almeno cinque - sei centimetri.
«Ispettore Ducato, ho chiesto qualcosa, ma è meglio che parlino direttamente con lei» disse Novento.
«Ok, grazie agente. Bene signori, accomodatevi. Uno alla volta ci racconterete cosa stavate facendo al momento del delitto».

Ducato si sedette alla scrivania della vittima e cominciò ad interrogare Veronica, la segretaria. Veronica doveva essere una ragazza abbastanza giovane. Non aveva sicuramente più di vent’anni e i lunghi capelli neri erano arruffati e consentivano a malapena di inquadrarle il viso e gli occhi, probabilmente sofferenti già per natura e non certo per la circostanza orribile nella quale si era inconsciamente trovata.
«Allora, signorina. Collabori con noi e non avrà problemi» disse Ducato. Flavio annuì, Veronica anche.
«Voglio che lei mi dica cosa ha fatto … diciamo tra le sette e quindici e le otto e otto».
Veronica abbassò lo sguardo. Adesso tremava più degli altri, che stavano alle sue spalle e fissavano la scena come ignoti spettatori.
«Io … sono uscita di casa verso le sei e quarantacinque. Poi mi sono diretta allo studio. Sono entrata come al solito dalla porta principale e sono andata nel mio ufficio a sistemare l’agenda e programmare la giornata del signor Fratti.».
«Sa dirmi a che ora è entrata nell’ufficio, signorina?» chiese Flavio.
«Be’… era molto presto … forse potevano essere le sette e quindici, non più tardi».
«Quindi lei sostiene di essere già stata presente in ufficio quando sono iniziati i fatti. E possibile che non abbia udito alcun rumore? Un tonfo, ad esempio?» chiese Ducato.
«N - no … non credo».
«Ne è proprio sicura?».
«Sì, ne sono sicura. Non ho sentito alcun rumore sospetto.»
«Lei ha un alibi, per quello che dice?» dissi a voce alta.
«C - come?»
«Ha o no qualcuno che possa confermare che è uscita di casa alle sei e quarantacinque, che sia arrivata in ufficio alle sette e quindici e così via … ».
«Sì. Prima di arrivare in ufficio sono rimasta a parlare cinque minuti con la signora che abita nel palazzo qui di fronte. Può chiederglielo, sa? Si chiama Concetta Tremendi. Ogni mattina ci intratteniamo e scambiamo due chiacchiere».
«Grazie signorina, con lei ho finito, può andare.» disse Ducato. Poi mi guardò perplesso.

Ducato chiamò il signor Norgi, l’assistente di studio, un uomo che sembrava molto pacifico. La classica persona dalla quale non ti aspetti un furto di caramelle, figuriamoci un crudele omicidio.
«Signor Norgi. Lei è l’assistente dello studio legale. Ripercorra i suoi movimenti. A che ora è arrivato in ufficio?»
«Verso le sette e trentacinque. Ero in ritardo, stamattina»
«Può confermare qualcuno per lei?»
«Certo. Quando sono arrivato Veronica era in sala d’attesa a sistemare le riviste del signor Fratti e mi ha visto andare in ufficio».
«Signorina, conferma?» chiese con severità Ducato.
Veronica annuì con un semplice cenno della testa e scomparve nel pullover color vinaccio che indossava.
Poi intervenni io. «Ispettore, mi scusi. Posso fare io una domanda al Signor Norgi?».
«Fai pure … » acconsentì infastidito l’ispettore.
«Può ripercorrere tutti i movimenti che ha fatto prima di arrivare in ufficio?»
«Sono uscito di casa».
«Dove abita?».
«A due isolati da qui».
«Non è molto lontano. Come mai ha affermato di aver fatto tardi?».
«Be’ stamattina la sveglia non ha suonato e così ho dormito qualche minuto in più, tutto qui».
Qualcuno ci interruppe. La signora Fratti si era alzata di scatto dalla sedia posta vicino alla porta. Nulla poteva fermarla e gli occhi vitrei davano forza immane alla sua voce rotta dal pianto. L’espressione del viso era tremendamente distorta e la bocca, quasi deformata a furia di singhiozzare, si aprì con una velocissima movenza delle labbra.
«Sei solo un volgare bugiardo!» disse rivolgendosi a Norgi. L’assistente si girò di scatto in preda al panico, i suoi occhi si posarono sulla donna in fremito che gli puntava il dito contro. L’ispettore Ducato sembrava spiazzato da quella reazione e così si affrettò a chiedere spiegazioni.
«Cosa?! Signora, si spieghi meglio!».
«Quel volgare bugiardo aveva un valido motivo per uccidere mio marito! Mi dia retta, è stato lui!».
«Ma cosa sta dicendo? Io non ho ucciso nessuno!» rispose Norgi nel panico. I suoi occhi erano rossi e gonfi e il collo ricoperto di vene pulsanti.
«È quello che vuoi farci credere, pazzo!» concluse la donna scoppiando in lacrime.
Ducato guardò storto l’assistente. L’uomo era raggomitolato su se stesso, seduto sulla sedia di fronte alla scrivania sulla quale troneggiava l’ispettore.
Osservai bene la scena e mi accorsi che la signora Fratti, ormai, piangeva più che parlare, mentre il signor Norgi era molto teso. Dovevate vederlo, scalpitava nella sua posizione, muoveva gli occhi in modo frenetico e si mordeva le labbra come avesse un tic nervoso. Era dunque lui il colpevole?

 La segretaria se ne stava in disparte, con gli occhi da cucciolo, l’espressione di chi non vede l’ora di tirarsi fuori da una situazione spiacevole e imbarazzante.
«Signora,» attaccò Flavio. «la prego di collaborare con noi. Se sa qualcosa di controverso a proposito delle relazioni tra il signor Norgi e suo marito, ce lo dica immediatamente».
«Il signor Norgi» disse ancora la moglie della vittima «aveva avuto una lite furiosa con mio marito solo qualche giorno fa! Paolo me l’aveva raccontata!».
Tutti guardammo Norgi. Lui guardò noi con un’espressione di pietà e per poco non scoppiò in lacrime.
«Non le crederete, vero?» chiese rivolgendosi a Ducato.
«Be’…».
«Che cosa?! Ispettore, non può basarsi solo su una testimonianza di una visionaria!».
«Visionaria io? Lei è un assassino senza nemmeno un po’ di vergogna!»
«Ah si? Se la polizia si basa sulle dichiarazioni di chiunque, allora vale anche la mia! L’avvocato Fratti aveva appena negato le ferie a Veronica! Anche lei aveva un movente per ucciderlo, non è vero?!» urlò. Poi si rivolse direttamente alla ragazza. «Non è forse vero che quei giorni di riposo ti servivano per portare tua sorella in quella clinica di Parigi?».
Veronica si limitò a rispondere con la timidezza che ci aveva mostrato per tutto il tempo. Nei suoi occhi si leggeva lo sdegno verso Oreste, la sua indignazione per aver di fronte un uomo che sapeva tutto di lei e che aveva scelto di colpirla probabilmente nel suo punto più debole.
«Signor Norgi, queste sono cose personali. Non vorrà …» provò a dire l’ispettore, ma fu suo malgrado interrotto.
«Ah no! Se qui ci si basa sulle supposizioni di una vipera trasformata in donna, ho il diritto di dire ciò che penso! Senza contare che il signor Fratti si confidava spesso con me e diceva che aveva dei problemi a casa con la moglie che non gli consentivano di lavorare serenamente! Anche la signora avrebbe avuto un valido movente per ucciderlo senza pietà!».
«Ma come si permette?!» la povera vedova si fiondò su Oreste, ma per fortuna che tra loro c’erano un paio di agenti della scientifica che sedarono la tensione e stemperarono i toni. L’ispettore richiamò all’attenzione tutti sferrando un violento pugno sulla scrivania e dicendo che non ci si poteva basare su false verità costruite al solo scopo di liberarsi dai sospetti.
Poi, ancora furente, proseguì:
«Signor Norgi. Ci racconti del suo litigio con la vittima. Poi può andare.»
«Ok. Ma sappiate che non avrei mai potuto ucciderlo come dicono. L’altra sera ho confuso alcune pratiche di lavoro e il signor Fratti ha sprecato per colpa mia un paio d’ore del suo tempo. Così, una volta accortomi dell’errore sono andato in ufficio a comunicarglielo e a scusarmi, ma lui ha reagito violentemente tirandomi addosso un portapenne e dandomi dell’incompetente».
«Bene, può andare.»
«Non avrei mai potuto ucciderlo …».
«Signora Fratti, venga qua per favore» disse Ducato ignorando l’ultima frase dell’uomo.

Mentre la signora si accomodava, Flavio si voltò verso di me. Ero rimasto in silenzio a pensare ininterrottamente a quei pochi indizi che avevamo a disposizione. Perché la porta di legno era sfregiata? Perché Fratti era stato ucciso? E soprattutto, da chi? Stando alle dichiarazioni, tutti avrebbero avuto un valido movente per ucciderlo.
«Hai qualche idea, pivellino?».
«Forse … però mi mancano le prove. Ho notato che la vittima è molto, molto minuta».
«Che vuoi dire?».
«Prima ho dato un’occhiata al cadavere e …».
«Senza permesso?!» Flavio mi alitò in faccia.
Feci un risolino per calmarlo. «Eh, eh … sì».
«Non devi muoverti senza permesso, lo capisci questo?!» mi strattonò.
«Ok, scusami, ma …».
«Niente “ma”! “Ma”, un corno!».
«Sì, ma ho notato che la vittima aveva un fisico davvero esile per essere un uomo. Peserà sì e no una quarantina di chili!»
Flavio non mi rispose, ma Ducato ascoltò la conversazione. La testimonianza della vedova era appena iniziata e l’ispettore approfittò del nostro dialogo per farle una domanda.
«Prima che inizi a parlare, signora, vorrei farle una domanda».
«Certo».
«Mi hanno fatto notare» disse guardandomi «che suo marito è particolarmente esile. Nonostante sia un uomo ha un fisico molto, molto minuto. Lei ce lo può spiegare?».
La signora tentennò, poi prese un profondo e significativo respiro.
«Mio marito soffriva di bulimia».
«Bulimia?» domandò Flavio.
«Già. È un disturbo molto comune che l’aveva fatto dimagrire in maniera vertiginosa.
«Signora Fratti,» continuò l’ispettore «lei è la moglie della vittima. Per caso stamattina ha notato qualcosa di insolito in suo marito? Qualcosa che abbia potuto, che so, innervosirlo?».
«No, ispettore. Paolo era calmo e tranquillo come al solito. Non ho notato nulla di strano»
«Stamattina suo marito, stando alle prime ipotesi, è arrivato in ufficio alla solita ora. Che cosa ha fatto a casa prima di venire in ufficio?».
«Nulla di particolare» disse abbassando gli occhi «Abbiamo fatto colazione insieme, poi ha preso le sue cose e si è diretto a lavoro».
«C’è qualcuno che può confermarlo?».
«No, mi dispiace, eravamo soli».
«Non avete figli?».
«Mio marito non ne aveva mai voluti».
Mi avvicinai al cadavere. La morte era avvenuta per strangolamento e c’erano ancora evidenti segni sul collo della vittima. Probabilmente l’assassino aveva agito senza utilizzare nessuna corda. Sul collo della vittima c’erano i tipici segni paralleli delle dita delle mani, ma non era stato possibile verificare il DNA, poiché l’omicida aveva indossato dei guanti. Mentre stavo allontanandomi dal corpo e mentre la signora continuava a parlare, notai qualcosa di strano sotto le unghie dell’avvocato.
«Agente» dissi rivolgendomi ad un addetto della scientifica. «Ha trovato qualcosa sotto le unghie della vittima?».
Il ragazzo, un tizio biondastro sulla trentina, rispose quasi infastidito: «Ha un’unghia scheggiata e dei piccoli frammenti di pelle incastrati proprio sotto l’unghia del dito medio, ma qualcuno dice che sono così piccoli che faremo fatica persino ad analizzarli».
Mi avvicinai alla mano della vittima, annusai il medio ed ebbi un’illuminazione.

Il dito svelava un indizio importante. Troppo importante per essere trascurato.