Bianca aprì la porta in mogano ed entrò.
La casa si apriva con un corridoio abbastanza stretto, dove c’era solo un
piccolo mobiletto con su un telefono fisso.
La ragazza ci fece strada dimostrando di
essere un’ottima padrona di casa. Svoltò a destra e ci portò in una cucina
abbastanza accogliente decorata con soprammobili rustici. Oltre al consueto
piano di lavoro, con tanto di forno e quant’altro, c’erano la lavastoviglie e
un tavolo, sempre di mogano, con al centro un contenitore di frutta finta. La
stanza si chiudeva con una piccola poltroncina di colore rosso fuoco sistemata
sul lato nord. Usciti dalla cucina, proprio di fronte a noi, c’era un salottino
abbastanza spazioso, con un divano bianco ad angolo e una televisione al plasma
ultimo modello. Proprio sotto la tv attaccata a muro vi era un uno splendido
camino e una vetrinetta verticale incastonata nel muro che conteneva chiavi,
ninnoli e fotografie in bianco nero. Non mancavano altre poltroncine e un
tavolo interamente di vetro con alcuni posacenere e foto di famiglia datate in
cui appariva un’altra donna stupenda almeno quanto Bianca.
«Vedi quei posacenere vuoti?» mi domandò
Bianca. «Lascia che arrivi mio padre e diventeranno pieni. Tu fumi?» chiese
scherzosamente.
«No, per niente».
«Meno male …».
Alle spalle del divano ad angolo, verso
sinistra, era posta una scrivania di legno antico che dava le spalle ad una
grande vetrata, coperta da tende color salmone. Accanto ad essa, verso l’angolo
più cieco della stanza, un’antica lampada ricamata con decorazioni bronzee
molto eleganti.
Verso la parte destra del salottino
sorgeva un’altra vetrata, poi c’era una libreria molto grande dove erano stati
custoditi una moltitudine di libri che toccavano i più svariati argomenti e
infine alcune piante che sentivano indubbiamente la presenza del tempo. C’era
inoltre una scala di marmo che portava al piano superiore. Al secondo piano
erano situate quattro camere da letto, due bagni e una piccola saletta esterna
con panchina, tavolino e sedie. Una sorta di studio nel corridoio,
praticamente. C’erano poi numerose finestre e diversi balconi. Scendemmo di
nuovo al piano di sotto, con Bianca che continuava a parlare e con me che, in tutta
sincerità, non le prestavo molta attenzione.
Ero molto impegnato ad ambientarmi in
quella casa, ma soprattutto a considerare ancora l’opzione di andare via, fare
una faccina dolce e salutare per sempre.
Alla fine del piccolo corridoio situato
all’entrata c’era un’ulteriore porta di
legno, molto più vecchia delle altre presenti in casa. Quella, mi spiegò Bianca
pazientemente, dava accesso all’ufficio investigativo.
«Si può …?».
«Vuoi entrare, eh?» mi chiese
ironicamente.
«Be’, diciamo che non mi dispiacerebbe».
L’ufficio era arredato in modo abbastanza
sobrio ed era alquanto spazioso.
Una scrivania di legno con delle sedie
modernissime troneggiava in fondo alla stanza; un piccolo salottino era stato
allestito ai piedi delle due sedie poste di fronte alla scrivania del
detective. A tutto si aggiungevano una televisione attaccata al muro e rivolta
verso la scrivania, una libreria con poche pratiche cartacee disposte in
evidente disordine e fogli sparsi a terra, molti dei quali calpestati. A dire
la verità mi sembrava tutto, davvero tutto, tranne che l’ufficio di un
detective. Mi avevano detto che l’agenzia non andava come avrebbe dovuto e che
attraversava un periodo di magra dovuto al carattere «instabile e rissoso» del
responsabile, ma cercai comunque di far buon viso a cattivo gioco.
Verso il fondo dell’ufficio, a sinistra
della scrivania, c’era un piccolo portoncino di legno. Doveva essere un’entrata
secondaria della casa o qualcosa del genere.
«Allora, che ve ne pare?» ci domandò
Bianca facendoci sobbalzare. Aveva parlato per almeno quindici minuti di fila,
ma io non avevo praticamente ascoltato nulla.
«Tutto molto carino, complimenti» affermai
educatamente.
«Sono contento che ti piaccia. Tu e tuo
fratello dormirete in camere separate, ma comunque vicine. Va bene?».
«Certo, è perfetto. Ti ringrazio molto di
avermi “guidato”»
«Di niente» rispose con un largo sorriso.
Il portoncino dell’ufficio si aprì
improvvisamente. La chiave girò nella toppa e quando la serratura scattò mi
ritrovai di fronte un uomo altissimo, che sfiorava sicuramente il metro e
novanta. Era molto magro, direi longilineo. Aveva sicuramente qualche chiletto
in più, che però non aggravava affatto la sua persona. La barba incolta gli
incorniciava il volto e l’espressione tesa e aggressiva mi fecero
immediatamente intuire chi fosse.
Alla nostra vista si sorprese, quasi non
si aspettasse di trovarci lì.
«Bianca, cosa ci fai qui?» domandò con
voce possente.
«Ciao papà. Stavo mostrando la casa ad
Alex».
«Alex?» pronunciò il mio nome quasi con
disprezzo. «Ah» continuò poi, «sei tu ragazzo?» mi chiese.
Gli tesi la mano per stringergliela, per
presentarmi con educazione, ma lui la guardò con diffidenza e sorrise in modo
sarcastico inarcando un sopracciglio e accomodandosi alla sua scrivania.
«Allora se non sbaglio,» prese in mano
alcune carte «tu dovresti essere il ragazzino che il Ministero ha mandato qui,
dico bene?».
«Sì».
«Be’ ragazzo, non hai l’aria tanto
sveglia».
Che gentile, vero? Aveva subito instaurato
un clima pesante e mi era già simpatico come un mal di denti il giorno di
Natale.
Bianca aveva corrucciato la fronte e aveva
risposto:
«Bel modo di accoglierlo … papà, sii
gentile almeno con lui».
Flavio intanto si era tolto la giacca ed
era rimasto in camicia bianca con cravatta nera.
«Che significa?» domandò a sua figlia. «Io
sono sempre gentile. Piuttosto, oggi non hai compiti da fare?».
«Be’, certo, ma …».
«E allora falli, no?».
«Antipatico!» lo apostrofò facendogli una
linguaccia.
Bianca si allontanò con un’espressione
serena sul viso.
Cercai di convincermi che Flavio non fosse
davvero così scorbutico, ma che fingesse per rafforzare un carattere normale
che però lavorava in un ambiente particolare. Forse però stavo fantasticando
troppo e mentre ero assorto nei miei pensieri la voce dura, rude e ferma
dell’uomo mi richiamò all’attenzione.
«Come hai detto di chiamarti?»
«Alex» risposi.
«Alex, siediti di fronte a me e attendi un
momento».
Feci come aveva detto. Flavio teneva la
testa abbassata sulle pratiche, le esaminava, le spulciava minuziosamente e
talvolta le correggeva a penna rossa. Poi alcune le strappava e le buttava nel
cestino situato sotto la scrivania ed altre invece le riponeva in un cassetto.
Il silenzio totale durò circa dieci minuti.
Poi, ad un tratto, il signor Moggelli
cominciò a parlare sollevando lentamente la testa dalle pratiche e guardandomi
fisso.
«Allora, Alex, spiegami» esordì. «Perché
vuoi fare il detective?».
«Be’ vede signore, io …».
Mi interruppe.
«Non cominciare ad incantarmi con questi
formalismi. Dammi del “tu” e chiamami Flavio»
«D’accordo» asserii. «Come dicevo, fare il
detective è sempre stato il mio grande sogno».
Fece un mezzo sorriso, naturalmente
sarcastico, prese fiato e rispose con una calma invidiabile.
«Quindi, tu ti sei trasferito da … da dove
ti sei trasferito?» si sporse in avanti.
«Fondi».
«Dove si trova?».
«Provincia di Latina».
«Dicevo … ti sei trasferito da Fondi,
piccola città ridente, a Torino grande metropoli, per coronare il tuo sogno?
Buona fortuna, ragazzo».
«Cosa vuol dire?».
«Vedi, le pratiche che ho letto fin ora …
riguardavano solo te. Qui c’è il certificato di provenienza del PSD, quella
sottospecie di corso che hai frequentato nel quale l’unica cosa che fanno è rendervi
ridicoli, alcune parole scritte dal commissario Gabriele Colarte e qualche articolo
di giornale che parla di te, del tuo talento per i misteri e cose così». Si
chinò in avanti posando i gomiti sulla scrivania e mi sorrise furbescamente.
«Ho fatto qualche telefonata in giro e mi hanno detto che al PSD hai fatto
scintille» il suo sorriso si accentuò e divenne inquietante. «Cosa spinge un
ragazzino come te a … a volersi immischiare in un mondo complicato e sporco
come quello degli investigatori?».
«Diciamo che ho sempre amato collaborare
con la giustizia, con quella vera».
«Cosa vuoi dire?» sussurrò mantenendo il
ghigno.
«Che mi piacerebbe garantire la vera
giustizia».
«E cosa ti fa pensare che non tutta la
giustizia sia autentica?».
«Be’ tante cose … »
Incrociò le braccia dietro la nuca. «Sei
vago, ragazzo … perché non approfondisci e mi fai capire davvero cosa pensi?».
«Semplicemente penso che non sempre la
legge sia uguale per tutti» risposi con naturalezza.
Il suo volto s’incupì. Agli uffici del PSD
mi avevano detto che Flavio era stato per quindici anni nelle forze
dell’ordine, che era un uomo integerrimo e duro come l’acciaio, un sergente
inespugnabile che faceva rigare dritto i suoi sottoposti con un solo sguardo.
Si alzò lentamente dalla sedia e andò verso la sua destra, a consultare la
libreria. Poi prese un fascicolo di colore giallo ocra e lo lanciò sul tavolo
in segno di sfida. Si risedette al suo posto e cominciò a parlare prendendo
tanto fiato.
«Davvero pensi questo, ragazzo?»
«Perché non dovrei?» raccolsi il guanto di
sfida.
Aprì il fascicolo. All’interno c’erano un
sacco di cartelline trasparenti, documenti, molti articoli di giornale, ritagli
fotografici, attestati al merito poliziesco e quant’altro.
Prese una cartellina ed estrasse un foglio
di giornale sbiadito.
«Padova» disse cominciando a leggere. «Brillante
operazione poliziesca nella città veneta. La collaborazione delle forze
dell’ordine regionali con quelle della città di Torino è stata provvidenziale per catturare Giancarlo
Fannorini, noto ricettatore. Per Fannorini sono stati necessari tre anni di
appostamenti. I leader dell’operazione sono stati l’ispettore Giovanni Andrelli
del distretto padovano e l’agente Flavio Moggelli del commissario plenario di
Torino, coordinato dall’ispettore piemontese Vincenzo Ducato».
Stetti zitto.
Prese un altro articolo e ricominciò a
leggere.
«Torino. La polizia ha finalmente
arrestato Bernardo Mastroni, noto spacciatore e assassino che aveva seminato
panico in tutto il nord del Belpaese. Mastroni è stato brillantemente fermato
al termine di un inseguimento quasi cinematografico dall’ispettore Flavio
Moggelli, che ha sottolineato come questa sia stata la vittoria definitiva
della giustizia».
Mi guardò con aria di sfida e sospirò
soddisfatto.
«Allora, ragazzino. Cosa ti fa pensare che
esista una giustizia fasulla?».
«Il fatto che ci sono decine di reati
rimasti impuniti».
«Davvero? E tu sai il perché?».
«Perché la polizia si rifiuta di indagare
oltre».
Diede un violentissimo pugno sulla
scrivania. Dopo aver resistito a quel colpo, sarebbe durata ancora una buona
decina d’anni. Si alzò di scatto e ispezionò la stanza con il suo passo
aggressivo e felpato.
«Che insolenza!» esclamò all’improvviso. «Un
ragazzino viene nello studio di un uomo di giustizia a dire che … che la
giustizia è corrotta! Non hai un briciolo di vergogna!».
«Cosa c’è? Ho solo espresso un’opinione».
«Abbastanza stupida, direi».
«Stronzate».
La stanza si gelò. Ci eravamo conosciuti
da nemmeno mezz’ora eppure avevamo già instaurato un clima pesante. Mi guardò
con occhi di fuoco, spiritati. Le sue braccia possenti appoggiate alla
scrivania tremavano per l’agitazione. Si era sbottonato la camicia, perciò
notai ancor di più il suo respiro affannoso, un misto di adrenalina
all’ennesima potenza mescolata con tanta rabbia repressa.
Poi si voltò e vide mio fratello. Già,
Andrea era rimasto seduto su una piccola sedia sistemata ad est della stanza. Non
mi ero nemmeno accorto ci fosse, in quanto non aveva ancora mai aperto bocca.
«Chi è quel piccoletto?» domandò a voce
alta.
«Mio fratello Andrea» risposi.
«Resterà con noi?».
«Se ci sono io deve starci anche lui».
Si avvicinò con aria da sbruffone a mio
fratello, gli si mise davanti e abbassandosi sulle ginocchia gli chiese:
«Allora giovanotto, quanti anni hai?».
«Cinque» rispose timidamente Andrea.
«Bene. Quindi vai ancora all’asilo?».
«Sì».
«Mi sembri un po’ agitato. Vuoi qualcosa
da bere, vuoi mangiare qualcosa?».
Scoprii che Flavio con i bambini sapeva
essere quantomeno premuroso. Dovevo aspettarmelo, dopotutto aveva anche lui una
figlia, seppur già adolescente.
«No, grazie signore» rispose educatamente
mio fratello.
«I tuoi genitori ti hanno educato bene.
Sicuro però di non volere niente? Ho della cioccolata in casa, un po’ di torta
al limone, dell’aranciata e …».
«No grazie, sto bene così» lo frenò
Andrea.
Flavio si sollevò da terra e disse:
«Ok. Allora mangerai a cena come tutti».
Poi ritornò alla scrivania con fare militaresco. «Bene, ragazzo.» disse
guardando l’orologio a pendolo alla sua destra. «Sono le sette e trenta. Tra
poco si cena. Tu intanto sistema la tua roba e quella di tuo fratello nelle
camere da letto. Fatti aiutare da Bianca, per il bambino».
«Grazie mille». Mi alzai e gli augurai buon
lavoro. Presi per mano Andrea ed uscii dall’ufficio, poi mi diressi nel
corridoio ripensando alla conversazione di poco prima. Entrai in salotto e
Bianca mi vide, così decise di accompagnarmi alle camere da letto. Per le scale
parlò del più e del meno, dei suoi impegni scolastici, del mestiere di suo
padre così affascinante e del fatto che da lui potevo imparare molto.
Al piano superiore mi mostrò la mia
stanza. Era una camera normale, con un piccolo balconcino e terrazzo per
affacciarmi. Il letto era disposto in modo verticale verso la parte sinistra
della stanza. In fondo a sinistra c’era una piccola scrivania e a destra un
armadio che avrebbe potuto contenere un loft.
Nella camera di Andrea vi era un lettino
messo in modo orizzontale, una piccola finestrella, un armadio di fronte al
letto e, anche per lui, una piccola scrivania di legno piena zeppa di foglietti
e colori a pastello.
«Allora, che ne dite?» domandò Bianca
portandosi le mani ai fianchi.
«Ci troveremo benissimo».
«Sono felice. Hai già fatto amicizia con
papà?» mi sorrise.
«Amicizia
è una parola grossa, diciamo che abbiamo avuto modo di parlare».
«Scommetto che avete discusso, non è
vero?» si rabbuiò in viso.
«Be’…»
«Lo sapevo!» esclamò piuttosto irritata.
«É sempre il solito burbero. Ma gliene dirò quattro!».
«No, no … abbiamo solo parlato un po’!».
«Quindi non avete litigato?»
«No,
battibeccato, ma sempre con il dovuto rispetto».
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