La
mattina dopo, quando percorsi la rampa di scale per arrivare in salotto prima e
in cucina poi, Bianca era già di fretta e ci salutò con un cenno veloce
scomparendo dietro la porta di mogano.
«Dove
va così di fretta?» domandai a Flavio.
«Una
sua amica le ha chiesto di aiutarla con un progetto o qualcosa del genere …»
rispose con tutta la diffidenza di questo mondo.
Poi,
bevuto un sorso di caffè, continuò. «Andrea non deve andare a scuola?»
«No,
per ora no. Di comune accordo con la mia famiglia abbiamo deciso di fargli
passare la prima settimana a riposo. Così, per farlo ambientare meglio. Per un
bambino è più difficile».
«Questo
lo dici tu. I bambini si adattano al nuovo ambiente automaticamente».
Facemmo
colazione in un silenzio abbastanza fastidioso, interrotto solo
dall’inevitabile fruscio delle pagine del quotidiano che Flavio stava leggendo.
Aggredendo un biscotto, pensai che io e quell’uomo non potevamo essere più
diversi. Poi un suono, un repentino trillo di un telefono e poi altri tre,
prima che il padrone di casa si alzasse e andasse a controllare il fisso.
«Pronto?»
disse sollevando la cornetta. Poi si zittì e con lo sguardo arrabbiato
riagganciò, venendo ben presto a sedersi di nuovo a tavola.
«Scherzi
da quattro soldi …». Ci accorgemmo presto, però, che il trillo continuava.
«Guarda
che forse è quello dell’ufficio …» osservai.
Si
alzò di scatto buttando il giornale a terra. Quasi rovesciò la tazzina di caffè
e litigò animosamente con il mazzo di chiavi, reo di non voler aprire la porta
del suo ufficio, peraltro ermeticamente sigillata da lui stesso la sera prima.
«Agenzia
investigativa di Flavio Moggelli. La ascolto, dica pure».
Rimase
al telefono per circa cinque minuti buoni. La maggior parte del tempo,
immagino, la passò ad annuire e ad ascoltare, dato il suo silenzio. Poi di
colpo entrò in cucina e fissandomi disse:
«Tu
non volevi fare il detective?».
Con
un biscotto ancora tra i denti bofonchiai: «Sì, perché …?».
«E’
ora di andare. Inizia l’avventura, ragazzino!».
«Ma
… proprio adesso?».
«Cosa
credi?! Che i criminali aspettino che tu abbia finito la colazione per
commettere le loro cazzate? Muoviti e vieni con me!».
«E
Andrea?!».
«Portalo
con noi, non c’è altra scelta! Ripeto: Sbrigati!».
Andai
di corsa al piano superiore, svegliai mio fratello in modo abbastanza brusco, mentre
lui mi chiedeva a più riprese cosa stesse succedendo. Naturalmente non potei
rispondergli in modo dettagliato, ma credo comunque che capì che era stato svegliato
per un motivo abbastanza importante.
Immaginate
che un bambino come Andrea possa impressionarsi sulla scena di un crimine?
Allora non conoscete per niente mio fratello. A cinque anni vantava la visione
dei migliori capolavori dell’horror. Era appassionato di tutte le serie
televisive che parlavano di crimini, omicidi o comunque in cui si facesse largo
uso di sangue, esplosioni e violenze.
Inoltre
aveva sempre desiderato lavorare, proprio come me, in questo mondo. Per lui era
bello respirare l’aria elettrica che si veniva a creare in un caso. Voleva
stare lì, vedere come facevano detective e poliziotti a risolvere i casi più
difficili. Praticamente un ficcanaso in edizione tascabile.
Prendemmo
la macchina di Flavio, che sfrecciò in quella fresca mattina autunnale come un
pilota di Formula Uno. Ci dirigemmo verso il centro e per me, che non avevo mai
visitato una grande città come Torino, fu una sorpresa ritrovarmi affascinato
dal continuo brulicare di persone che incessantemente popolavano le poco respirabili
strade di quella metropoli.
«Di
cosa dobbiamo occuparci?» domandai curioso.
«Di
cosa devo occuparmi, semmai» precisò
indisponente. «Non cominciare a portare fretta, il fatto che tu abbia risolto
qualche caso nella tua città non fa di te un detective. Osserva e impara come
da accordi».
«Quindi
non devo …»
«Bravo.
Non devi toccare, fare nulla. Pensa solo a badare al tuo fratellino e tieni gli
occhi aperti. Ti chiamerò io se avrò bisogno di verificare le tue opinioni in
proposito, d’accordo?».
Rimasi
zitto e annuii leggermente.
«Comunque,»
riprese a parlare «La chiamata è di un noto studio legale della città. Pare
abbiano trovato il cadavere di un avvocato».
«Ricevuto».
Arrivati
di fronte ad una palazzina color grigio chiaro, decidemmo di entrare. Salimmo
una rampa di scale che ci avrebbe indirizzati dalla hall fino al piano
superiore, dove probabilmente erano situati gli uffici degli avvocati Doveva
essere uno studio legale molto rinomato e me ne accorsi dall’arredamento,
elegante quanto costoso e dall’aria cinematografica. Un enorme lampadario
grande quanto una Porsche era sospeso nel corridoio della hall e per un momento
temetti di essere finito in una puntata di Law
and Order.
Appena
finite le scale ci ritrovammo in una piccolissima saletta d’attesa dove c’erano
già tre persone che, per la cronaca, non appena ci videro strabuzzarono gli
occhi.
Uno
di loro, un uomo sulla quarantina, era pallido, con i capelli castano chiaro e
con degli occhialini da dottore. Ci venne incontro come se noi fossimo Superman
e Batman e lui il bambino che deve essere salvato da Joker o da qualsiasi altro
cattivo dei fumetti vi venga in mente.
«Oh,
lei deve essere il signor Moggelli! Che gioia vederla!» disse stringendogli animatamente la mano. Poi
proseguì. «C’è anche la polizia ed è proprio la squadra capitanata
dall’ispettore che mi ha chiesto di rivolgermi a lei. So che avete lavorato a
stretto contatto per molti anni».
«Già,
si tratta della prima squadra dei reati di prima classe contro la persona. Ci
porti sulla scena del crimine, la prego».
In
macchina, tra le poche parole, Flavio mi aveva spiegato che i crimini più
importanti commessi a Torino erano di competenza del commissario plenario(o più
semplicemente plenario …), un istituto di giustizia istituito in città a metà
degli anni ottanta del quale aveva fatto parte anche lui per molti anni. I
reati di prima classe contro la persona comprendevano omicidi, stalking, furti,
molestie e cose di questo genere. La squadra era capitanata dall’ispettore capo
Vincenzo Ducato, un uomo che mi era stato descritto come di caratura piuttosto
elevata. La squadra era poi composta da altri ispettori, sottoposti a Ducato, e
da agenti dotati di particolari abilità, oltre che da un’ulteriore squadra di
agenti scientifici esterna.
«E
lei è …» fece Flavio.
«Oh,
certo che sciocco!» disse l’uomo di fronte a noi. «Mi chiamo Oreste Norgi e
sono l’assistente della vittima. Lei è Veronica Buondini, segretaria personale
dell’ufficio» disse indicando una donna abbastanza giovane con lunghi capelli neri.
Vidi
un’altra donna in fondo alla stanza che piangeva senza freni, così intervenni.
«Scusi,
chi è quella donna in fondo alla stanza che piange?».
«È la
signora Fratti, la moglie della vittima. Come potete vedere è distrutta».
«Comprensibile
…» sussurrò Flavio.
La donna
in questione doveva avere all’incirca sessant’anni, ma grazie ad un trucco
pesante e ad un abbigliamento giovanile ne dimostrava massimo cinquanta. Aveva
capelli biondo platino, corti e cotonati, un fisico asciutto e dei lineamenti marcati
accentuati dalle espressioni di dolore che sembravano dilaniarne l’anima.
«Dov’è
la vittima?» domandò Flavio al signor Norgi.
«Nel
suo studio» rispose la segretaria.
Flavio
mi fece cenno di seguirlo e così entrammo nel piccolo – ma elegantissimo studio
– che era proprio di fronte a noi. All’interno di esso c’era già una parte
della squadra capitanata da Ducato.
Il
primo a guardarci fu proprio Vincenzo Ducato. Lo intuii dall’espressione
importante, dallo sguardo tarato dell’uomo che ne ha viste di tutti i colori e
anche dalla descrizione fisica che mi aveva fatto in macchina Flavio. L’ispettore
doveva avere circa cinquant’anni e, ad un fisico da far invidia, abbinava un
look del tutto giovanile composto da capelli corti neri striati di grigio e da
una barba, lunga ma curata, che gli avvolgeva il mento e al contempo gli permetteva
di incutere un certo timore reverenziale. Lo stesso non si poteva dire per la
sua statura, visto che a stento arrivava al metro e sessanta. Vestiva di un
lungo cappotto nero scamosciato e sotto di esso aveva abbinato, sapientemente,
una cravatta dello stesso colore ed una camicia bianca, linda come la coscienza
dei bambini. Al suo fianco vi erano due agenti, uno in giacca e cravatta,
dall’aria molto giovane e un altro con una tuta della scientifica.
«Ispettore!»
disse chiamandolo ad alta voce Flavio. Sembrava nostalgico dei vecchi tempi e
la sua voce assunse un’accezione sentimentale.
«Flavio
Moggelli … quanto tempo è passato … allora, come va?» rispose l’ispettore con
voce roca.
«Tutto
bene. Lei invece? Ho sentito che in questi anni ha fatto faville».
«È
rimasto tutto come avevi lasciato» e per un attimo ebbi l’impressione che quasi
gli scappasse un sorriso. Si ritrasse immediatamente. «Ho saputo che stai per
tornare in corsa e … » mi guardò sospettoso «È lui?» gli chiese.
«È
lui» confermò Flavio.
«Sono
io» dissi all’improvviso alzando una mano.
Ducato
lanciò uno sguardo a Flavio. «Spiritoso?».
«Da
spaccargli la faccia».
Sfoderai
il mio miglior sorriso e tesi la mano verso Ducato, ma questi mi guardò e mi
disse:
«Quanto
tempo hai intenzione di rimanere con quella mano sospesa?».
Due
strette di mano negate in meno di ventiquattr’ore. Un’altra e avrei stabilito
sicuramente un record.
«Allora
ispettore,» continuò Flavio «cos’è successo?».
«La
vittima è un noto avvocato della città. Sua moglie era venuta qui alle otto
passate, ora d’apertura dello studio, per portargli il pranzo che aveva
dimenticato a casa. Aperto la porta sul retro, ha trovato il corpo del marito
ed ha allarmato assistente e segretaria».
«Chiaro»
«Secondo
la scientifica i fatti sono avvenuti verso le sette e quindici e le otto di
questa mattina, ora del ritrovamento del corpo. Parliamo quindi di poco fa».
Guardai
il mio orologio da polso per vedere che ora fosse: le nove meno venti. Intervenni
incuriosito. «Possibile che in ufficio, nel giro di un’ora, nessuno si sia accorto che la vittima era
stata uccisa?» Flavio mi guardò storto.
«No»
rispose a denti stretti l’Ispettore. «Il signor Fratti, avvocato di professione
e dalla sfavillante carriera, aveva l’abitudine di arrivare a lavoro sempre
un’ora prima per poter sbrigare l’enorme quantità di pratiche e poter tornare a
casa prima la sera. Inoltre non consentiva a nessuno di entrare nel suo ufficio.
I suoi assistenti aspettavano la sua chiamata per entrare ed iniziare il
programma della giornata e pare che se qualcuno si azzardasse ad aprire la
porta la vittima reagisse in modo molto violento».
«Tutto
chiaro».
«Non
ti avevo detto di stare zitto?» mi rimproverò Flavio. «Tieni il becco chiuso,
ok?» e mi guardò con occhi di ghiaccio.
«No,
no lascialo fare, forse potrà esserci d’aiuto» disse Ducato. «Deve comunque
guadagnarsi il PSC … PSI …».
«PSD»
lo corressi.
Mi
lanciò un’occhiata priva di emozioni e inarcò un sopracciglio. «Sì, quello che
è … ».
«Mi
dica, ispettore» continuò Flavio. «I tre sospetti hanno un alibi?».
«Chi
ti dice che sia stato uno di loro tre? Potrebbe essere stato ucciso da qualcuno
entrato dalla porta posteriore che dà sull’ufficio».
«No»
intervenni ancora. «Credo Flavio abbia ragione. La porta è chiusa dall’interno
con un chiavistello e non vedo segni di forzatura».
«Ma
l’assassino potrebbe aver avuto una chiave di riserva, non credi? Forse ha
fatto entrare un amico e …» cercò di ribattere ancora Ducato.
«Non
credo proprio. Se l’avvocato era davvero così minuzioso e scrupoloso come lei
stesso lo ha descritto, dubito che abbia concesso a qualcuno di accompagnarlo a
lavoro, visto che trascorreva del tempo in solitario per sbrigare pratiche in
eccesso». Mi appoggiai alla scrivania. «Né credo che l’avvocato volesse correre
il rischio di essere interrotto a lavoro da … un amico ogni giorno»
Vidi
l’ispettore fare una smorfia poco convinto, poi andò da Flavio, si avvicinò e
gli sussurrò:
«Ho
visto che non lo sopporti …» disse a denti stretti cercando di escludermi dalla
conversazione.
«Si
vede così tanto?» rispose Flavio nello stesso modo.
«Sì
… e adesso non lo sopporto più nemmeno io».
«Se
la sbrighi lei. Mi pare sia stato lei a sostenere che dovesse interagire col caso, o sbaglio?».
«Non
credevo che fosse così rompiballe» ultimò l’ispettore con un ghigno bonario.
«Novento»
disse l’ispettore chiamando a sé un giovane agente. Era vestito in giacca e cravatta
e non doveva avere più di venticinque anni. Possedeva una capigliatura
piuttosto inusuale per un poliziotto, visto che teneva i capelli, visibilmente
voluminosi, tirati completamente in su col gel.
«Dica
ispettore».
«Vai
a controllare se le tre persone in sala d’attesa hanno un alibi».
«Immediatamente,
signore».
Mentre
Ducato e Flavio facevano le più disparate ipotesi, cercai di scoprire di più e,
mentre stavo esaminando la scena del delitto, tra le urla di Flavio che mi
voleva da parte, notai che la porta secondaria dalla quale il signor Fratti era
entrato era rovinata dall’esterno, sulla parte inferiore. Parte del legno,
infatti, era stato scorticato, forse con un oggetto appuntito. Il graffio
doveva essere abbastanza recente, visto che non vi erano tracce di acqua sporca
che potevano essere state provocate da un probabile temporale.
L’agente
incaricato di verificare gli alibi, portò con sé tutti e tre i sospetti.
Notai
quanto la moglie della vittima fosse molto più alta sia della segretaria che dell’assistente
d’ufficio. Questo era dovuto alle vertiginose scarpe a punta dotate, tra
l’altro, di un tacco di almeno cinque - sei centimetri.
«Ispettore
Ducato, ho chiesto qualcosa, ma è meglio che parlino direttamente con lei»
disse Novento.
«Ok,
grazie agente. Bene signori, accomodatevi. Uno alla volta ci racconterete cosa
stavate facendo al momento del delitto».
Ducato
si sedette alla scrivania della vittima e cominciò ad interrogare Veronica, la
segretaria. Veronica doveva essere una ragazza abbastanza giovane. Non aveva
sicuramente più di vent’anni e i lunghi capelli neri erano arruffati e
consentivano a malapena di inquadrarle il viso e gli occhi, probabilmente
sofferenti già per natura e non certo per la circostanza orribile nella quale si
era inconsciamente trovata.
«Allora,
signorina. Collabori con noi e non avrà problemi» disse Ducato. Flavio annuì,
Veronica anche.
«Voglio
che lei mi dica cosa ha fatto … diciamo tra le sette e quindici e le otto e otto».
Veronica
abbassò lo sguardo. Adesso tremava più degli altri, che stavano alle sue spalle
e fissavano la scena come ignoti spettatori.
«Io
… sono uscita di casa verso le sei e quarantacinque. Poi mi sono diretta allo
studio. Sono entrata come al solito dalla porta principale e sono andata nel
mio ufficio a sistemare l’agenda e programmare la giornata del signor Fratti.».
«Sa
dirmi a che ora è entrata nell’ufficio, signorina?» chiese Flavio.
«Be’…
era molto presto … forse potevano essere le sette e quindici, non più tardi».
«Quindi
lei sostiene di essere già stata presente in ufficio quando sono iniziati i
fatti. E possibile che non abbia udito alcun rumore? Un tonfo, ad esempio?»
chiese Ducato.
«N
- no … non credo».
«Ne
è proprio sicura?».
«Sì,
ne sono sicura. Non ho sentito alcun rumore sospetto.»
«Lei
ha un alibi, per quello che dice?» dissi a voce alta.
«C
- come?»
«Ha
o no qualcuno che possa confermare che è uscita di casa alle sei e
quarantacinque, che sia arrivata in ufficio alle sette e quindici e così via …
».
«Sì.
Prima di arrivare in ufficio sono rimasta a parlare cinque minuti con la
signora che abita nel palazzo qui di fronte. Può chiederglielo, sa? Si chiama
Concetta Tremendi. Ogni mattina ci intratteniamo e scambiamo due chiacchiere».
«Grazie
signorina, con lei ho finito, può andare.» disse Ducato. Poi mi guardò
perplesso.
Ducato
chiamò il signor Norgi, l’assistente di studio, un uomo che sembrava molto
pacifico. La classica persona dalla quale non ti aspetti un furto di caramelle,
figuriamoci un crudele omicidio.
«Signor
Norgi. Lei è l’assistente dello studio legale. Ripercorra i suoi movimenti. A
che ora è arrivato in ufficio?»
«Verso
le sette e trentacinque. Ero in ritardo, stamattina»
«Può
confermare qualcuno per lei?»
«Certo.
Quando sono arrivato Veronica era in sala d’attesa a sistemare le riviste del
signor Fratti e mi ha visto andare in ufficio».
«Signorina,
conferma?» chiese con severità Ducato.
Veronica
annuì con un semplice cenno della testa e scomparve nel pullover color vinaccio
che indossava.
Poi
intervenni io. «Ispettore, mi scusi. Posso fare io una domanda al Signor
Norgi?».
«Fai
pure … » acconsentì infastidito l’ispettore.
«Può
ripercorrere tutti i movimenti che ha fatto prima di arrivare in ufficio?»
«Sono
uscito di casa».
«Dove
abita?».
«A
due isolati da qui».
«Non
è molto lontano. Come mai ha affermato di aver fatto tardi?».
«Be’
stamattina la sveglia non ha suonato e così ho dormito qualche minuto in più,
tutto qui».
Qualcuno
ci interruppe. La signora Fratti si era alzata di scatto dalla sedia posta
vicino alla porta. Nulla poteva fermarla e gli occhi vitrei davano forza immane
alla sua voce rotta dal pianto. L’espressione del viso era tremendamente
distorta e la bocca, quasi deformata a furia di singhiozzare, si aprì con una velocissima
movenza delle labbra.
«Sei
solo un volgare bugiardo!» disse rivolgendosi a Norgi. L’assistente si girò di
scatto in preda al panico, i suoi occhi si posarono sulla donna in fremito che
gli puntava il dito contro. L’ispettore Ducato sembrava spiazzato da quella
reazione e così si affrettò a chiedere spiegazioni.
«Cosa?!
Signora, si spieghi meglio!».
«Quel
volgare bugiardo aveva un valido motivo per uccidere mio marito! Mi dia retta,
è stato lui!».
«Ma
cosa sta dicendo? Io non ho ucciso nessuno!» rispose Norgi nel panico. I suoi
occhi erano rossi e gonfi e il collo ricoperto di vene pulsanti.
«È quello
che vuoi farci credere, pazzo!» concluse la donna scoppiando in lacrime.
Ducato
guardò storto l’assistente. L’uomo era raggomitolato su se stesso, seduto sulla
sedia di fronte alla scrivania sulla quale troneggiava l’ispettore.
Osservai
bene la scena e mi accorsi che la signora Fratti, ormai, piangeva più che
parlare, mentre il signor Norgi era molto teso. Dovevate vederlo, scalpitava
nella sua posizione, muoveva gli occhi in modo frenetico e si mordeva le labbra
come avesse un tic nervoso. Era dunque lui il colpevole?
La segretaria se ne stava in disparte, con gli
occhi da cucciolo, l’espressione di chi non vede l’ora di tirarsi fuori da una
situazione spiacevole e imbarazzante.
«Signora,»
attaccò Flavio. «la prego di collaborare con noi. Se sa qualcosa di controverso
a proposito delle relazioni tra il signor Norgi e suo marito, ce lo dica
immediatamente».
«Il
signor Norgi» disse ancora la moglie della vittima «aveva avuto una lite
furiosa con mio marito solo qualche giorno fa! Paolo me l’aveva raccontata!».
Tutti
guardammo Norgi. Lui guardò noi con un’espressione di pietà e per poco non scoppiò
in lacrime.
«Non
le crederete, vero?» chiese rivolgendosi a Ducato.
«Be’…».
«Che
cosa?! Ispettore, non può basarsi solo su una testimonianza di una
visionaria!».
«Visionaria
io? Lei è un assassino senza nemmeno un po’ di vergogna!»
«Ah
si? Se la polizia si basa sulle dichiarazioni di chiunque, allora vale anche la
mia! L’avvocato Fratti aveva appena negato le ferie a Veronica! Anche lei aveva
un movente per ucciderlo, non è vero?!» urlò. Poi si rivolse direttamente alla
ragazza. «Non è forse vero che quei giorni di riposo ti servivano per portare
tua sorella in quella clinica di Parigi?».
Veronica
si limitò a rispondere con la timidezza che ci aveva mostrato per tutto il
tempo. Nei suoi occhi si leggeva lo sdegno verso Oreste, la sua indignazione
per aver di fronte un uomo che sapeva tutto di lei e che aveva scelto di
colpirla probabilmente nel suo punto più debole.
«Signor
Norgi, queste sono cose personali. Non vorrà …» provò a dire l’ispettore, ma fu
suo malgrado interrotto.
«Ah
no! Se qui ci si basa sulle supposizioni di una vipera trasformata in donna, ho
il diritto di dire ciò che penso! Senza contare che il signor Fratti si
confidava spesso con me e diceva che aveva dei problemi a casa con la moglie
che non gli consentivano di lavorare serenamente! Anche la signora avrebbe
avuto un valido movente per ucciderlo senza pietà!».
«Ma
come si permette?!» la povera vedova si fiondò su Oreste, ma per fortuna che
tra loro c’erano un paio di agenti della scientifica che sedarono la tensione e
stemperarono i toni. L’ispettore richiamò all’attenzione tutti sferrando un
violento pugno sulla scrivania e dicendo che non ci si poteva basare su false
verità costruite al solo scopo di liberarsi dai sospetti.
Poi,
ancora furente, proseguì:
«Signor
Norgi. Ci racconti del suo litigio con la vittima. Poi può andare.»
«Ok.
Ma sappiate che non avrei mai potuto ucciderlo come dicono. L’altra sera ho
confuso alcune pratiche di lavoro e il signor Fratti ha sprecato per colpa mia
un paio d’ore del suo tempo. Così, una volta accortomi dell’errore sono andato
in ufficio a comunicarglielo e a scusarmi, ma lui ha reagito violentemente
tirandomi addosso un portapenne e dandomi dell’incompetente».
«Bene,
può andare.»
«Non
avrei mai potuto ucciderlo …».
«Signora
Fratti, venga qua per favore» disse Ducato ignorando l’ultima frase dell’uomo.
Mentre
la signora si accomodava, Flavio si voltò verso di me. Ero rimasto in silenzio
a pensare ininterrottamente a quei pochi indizi che avevamo a disposizione.
Perché la porta di legno era sfregiata? Perché Fratti era stato ucciso? E
soprattutto, da chi? Stando alle dichiarazioni, tutti avrebbero avuto un valido
movente per ucciderlo.
«Hai
qualche idea, pivellino?».
«Forse
… però mi mancano le prove. Ho notato che la vittima è molto, molto minuta».
«Che
vuoi dire?».
«Prima
ho dato un’occhiata al cadavere e …».
«Senza
permesso?!» Flavio mi alitò in faccia.
Feci
un risolino per calmarlo. «Eh, eh … sì».
«Non
devi muoverti senza permesso, lo capisci questo?!» mi strattonò.
«Ok,
scusami, ma …».
«Niente
“ma”! “Ma”, un corno!».
«Sì,
ma ho notato che la vittima aveva un fisico davvero esile per essere un uomo.
Peserà sì e no una quarantina di chili!»
Flavio
non mi rispose, ma Ducato ascoltò la conversazione. La testimonianza della
vedova era appena iniziata e l’ispettore approfittò del nostro dialogo per
farle una domanda.
«Prima
che inizi a parlare, signora, vorrei farle una domanda».
«Certo».
«Mi
hanno fatto notare» disse guardandomi «che suo marito è particolarmente esile.
Nonostante sia un uomo ha un fisico molto, molto minuto. Lei ce lo può
spiegare?».
La
signora tentennò, poi prese un profondo e significativo respiro.
«Mio
marito soffriva di bulimia».
«Bulimia?»
domandò Flavio.
«Già.
È un disturbo molto comune che l’aveva fatto dimagrire in maniera vertiginosa.
«Signora
Fratti,» continuò l’ispettore «lei è la moglie della vittima. Per caso
stamattina ha notato qualcosa di insolito in suo marito? Qualcosa che abbia
potuto, che so, innervosirlo?».
«No,
ispettore. Paolo era calmo e tranquillo come al solito. Non ho notato nulla di
strano»
«Stamattina
suo marito, stando alle prime ipotesi, è arrivato in ufficio alla solita ora.
Che cosa ha fatto a casa prima di venire in ufficio?».
«Nulla
di particolare» disse abbassando gli occhi «Abbiamo fatto colazione insieme,
poi ha preso le sue cose e si è diretto a lavoro».
«C’è
qualcuno che può confermarlo?».
«No,
mi dispiace, eravamo soli».
«Non
avete figli?».
«Mio
marito non ne aveva mai voluti».
Mi
avvicinai al cadavere. La morte era avvenuta per strangolamento e c’erano
ancora evidenti segni sul collo della vittima. Probabilmente l’assassino aveva
agito senza utilizzare nessuna corda. Sul collo della vittima c’erano i tipici
segni paralleli delle dita delle mani, ma non era stato possibile verificare il
DNA, poiché l’omicida aveva indossato dei guanti. Mentre stavo allontanandomi
dal corpo e mentre la signora continuava a parlare, notai qualcosa di strano
sotto le unghie dell’avvocato.
«Agente»
dissi rivolgendomi ad un addetto della scientifica. «Ha trovato qualcosa sotto
le unghie della vittima?».
Il
ragazzo, un tizio biondastro sulla trentina, rispose quasi infastidito: «Ha
un’unghia scheggiata e dei piccoli frammenti di pelle incastrati proprio sotto
l’unghia del dito medio, ma qualcuno dice che sono così piccoli che faremo
fatica persino ad analizzarli».
Mi
avvicinai alla mano della vittima, annusai il medio ed ebbi un’illuminazione.
Il
dito svelava un indizio importante. Troppo importante per essere trascurato.

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