EPISODIO 1
La promessa
Volevo andarmene,
onestamente.
I miei capelli neri cadevano sulla mia fronte corrucciata e
toccavano le folte sopracciglia. Gli
occhi scuri scrutavano ogni millimetro del vuoto. Per me, che avevo sempre
vissuto in una piccola città, era uno shock arrivare in una metropoli come
Torino. Ritrovarsi a diciotto anni, a cambiare realtà e abitudini è dura per
chiunque. Il taxi su cui ormai ero salito stava giungendo a destinazione e
doveva portarmi davanti ad un’abitazione nella quale avrei dovuto abitare per
chissà quanto tempo.
Avevo
superato brillantemente il corso ministeriale PSD (Promesse Settore Detective)
e, sempre per ordini dall’alto, mi accingevo a trasferirmi in una grande città
per un periodo di collaborazione con un’agenzia investigativa che si era messa
a disposizione del Ministero per scopi puramente economici. Il Ministero
offriva una rendita annuale di dodicimila euro a ogni agenzia che si
dimostrasse volenterosa e ciò si traduceva in mille euro al mese. Un bel
gruzzolo se sommati ai proventi dell’agenzia stessa.
«Siamo
arrivati, fratellone?».
«Non
ancora, Andrea. Porta ancora un po’ di pazienza».
Per
lo più mi ritrovavo con il mio fratellino a carico. Andrea non era un elemento
di disturbo. Assolutamente. Sapete però com’è … occuparsi di un bimbo di cinque
anni è impegnativo per chi è genitore, figuriamoci per un ragazzino. Il fatto è
che mio fratello maggiore era in viaggio per motivi universitari nei vecchi
USA, mia madre lavorava presso una compagnia televisiva abbastanza nota in
Giappone e non avevamo un padre da circa cinque anni.
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| Jacopo Grignani |
«Siamo
arrivati, ragazzo» la voce del tassista risuonò nel silenzio dell’auto coperto
solo dal rumore incessante e fastidioso del motore. Il mio fratellino si
distolse dal suo giochino, il noto cubo di Rubik e alzò la testa per guardare
in che posto ci trovassimo. Ricordo che la sua espressione non mi piacque per
niente e che sembrò essere ad un passo dal pianto.
«Grazie
signore, quanto le devo?» dissi esibendomi nel mio miglior sorriso triste.
«Quindici
euro» rispose lui con freddezza. Afferrò le banconote e ripartì sgommando.
Andrea
aveva voluto per forza venire con me. Non gli andava l’idea di vivere negli
Stati Uniti con Leonardo, né quella di cambiare completamente cultura in
Giappone, seppur ci lavorasse la mamma, donna straordinaria e nel pieno della
carriera giornalistica. Per esclusione era stato affidato a me e lui a casa,
nella nostra piccola Fondi, si era dimostrato entusiasta, tanto da definire il
lavoro di detective privato «uno spasso». D’un tratto però si era
immobilizzato, con lo sguardo rivolto sull’asfalto reso ancor più grigio dalle
nuvole dei primi giorni di Settembre.
Eravamo
fermi di fronte ad un cancello ferrato color ruggine. Fissavamo il palazzotto
che c’era al di là del giardinetto tenuto in ordine quanto bastava per fare una
discreta impressione. A tutto ciò faceva da contorno un tempo non certo da
suscitare applausi e feste. Il cielo di Torino era grigio, fumoso e
tremendamente morto
Nella
mia città avevo risolto un buon numero di casi aiutando la polizia come
consulente. Non è difficile farsi notare quando tuo padre è un giornalista di
nera che collabora con le forze dell’ordine e contribuisce a salvar loro la
faccia quando è necessario.
«Dobbiamo
suonare, piccolo» sussurrai
«Sicuro?».
Risi.
La tenerezza di un bambino che aveva paura della nuova realtà.
«Eh
sì. Non vorrai mica buscarti un raffreddore?» Non mi rispose per nulla. Abbassò la testa e scomparve nel suo
piumotto color verde scuro. Mi abbassai sulle ginocchia, gli sollevai la testa
e lo guardai negli occhi.
«Andrà tutto bene» tentai di consolarlo
sorridendogli.
Mi guardò con aria sfiduciata e per un
attimo mi sentii come uno sfigato.
«Tu non dovrai temere nulla. Starai con
me, andrai a scuola, come sempre. Non abbiamo alternative, fratellino. Ti prometto
che se farai il bravo avrai un bellissimo regalo, siamo d’accordo?».
Il suo sguardo s’illuminò. Forse lo avevo
parzialmente rassicurato e quella era la cosa più importante. Ci accostammo
dunque al cancello e una targa di pietra recitava:
AGENZIA INVESTIGATIVA FLAVIO MOGGELLI
C’era poi un campanello con scritta
scolorita che diceva: MOGGELLI.
Non feci in tempo a suonare che alle mie
spalle si era insediato qualcuno.
«Scusa, cosa stai facendo?» mi domando
candidamente.
Mi girai. Devo ammettere che non me ne
pentii affatto. Incontrai gli occhi neri di una ragazza pressoché della mia età,
forse leggermente più piccola, ma doveva essere comunque questione di poco.
Il
viso che mi ero ritrovato di fronte era davvero gradevole e quanto di più affascinante
potessi desiderare: gli occhi scuri mi interrogavano lasciandomi senza parole;
le sottili sopracciglia, il nasino minuto e la bocca piccolina erano il
preludio di una cascata di capelli neri scalati, lunghissimi e molto ben
tenuti. Dopo essere stato circa dieci secondi a fissarla come un perfetto
idiota, la lingua cominciò a voler essere indipendente dal cervello e così
riuscii a bofonchiare qualcosa.
«Mi chiamo Alex e sono stato mandato qui
dal Ministero. Sai, è per quel progetto che ha a che fare con il signor
Moggelli».
«Ah sì, hai ragione!» esclamò entusiasta
«Dovevo immaginarlo. Be’ ma chi è questo bimbo?» chiese illuminandosi mentre si
rivolgeva ad Andrea.
«É il mio fratellino. Si chiama Andrea»
risposi ancora disorientato.
La ragazza tentò di socializzare con mio
fratello, ma il piccoletto era abbastanza diffidente e quindi si nascose dietro
la mia figura, peraltro non certo imponente.
«Scusalo» dissi con un po’ di imbarazzo.
«È molto timido».
«Oh, figurati. Ma che ci facciamo ancora
qui? Entriamo, ti faccio vedere casa e agenzia».
Così dicendo aprì il cancelletto con un
mazzo di chiavi vecchio quanto il mondo e lo richiuse con disinvoltura.
«A proposito, che scema, non mi sono nemmeno
presentata. Mi chiamo Bianca. Sono la figlia del signor Moggelli»
«Molto piacere. In qualche senso l’avevo
già immaginato» sussurrai.
«Roba da detective?» domandò.
«Già» e risi in modo naturale. Lei fece lo
stesso.
